Walter De Stradis recupera la memoria della Potenza contadina
Nei suoi canti rivive la Potenza che non c'è più e che si era già persa quando lui diffondeva i versi della ballate popolari. Michele di Potenza riesumava un passato prossimo e remoto al tempo stesso. Ed è questa l'operazione che tenta di fare Walter De Stradis, direttore del settimanale locale Controsenso, con il libro Lo chiamavano Michele di Potenza (Villani editore), che segue il filone del recupero delle radici, iniziato nel 2017 con il saggio sul genio della taranta, Antonio Infantino. Ma chi era veramente Michele di Potenza? Perché di lui si sa così poco?
Michele di Potenza - dice De Stradis - era il cantante dialettale potentino per eccellenza. E lo è ancora, nella memoria dei meno giovani -che lo ricordano vivente e sul palco con l’asinello al seguito- ma anche in quella dei ragazzi di oggi, che fino a prima della Pandemia ne cantavano a squarciagola gli inni folk nel corso della festa patronale del capoluogo lucano, anche se magari non sapevano chi ne fosse l’autore. Oggi di lui si sa così poco perché è venuto a mancare circa una quarantina d’anni fa, e in questi quattro decenni sono state rarissime le occasioni in cui lo si è voluto ricordare adeguatamente. A parte pochissimi e sporadici casi, non c‘è stato un premio alla memoria, non un evento celebrativo, non una pubblicazione. C’è da aggiungere che lui viveva a Napoli, ove lavorava come vigile urbano, e lì aveva ormai la sua famiglia, e pertanto una questione meramente geografica può aver sicuramente influito. Ma a mio avviso c’è anche dell’altro. Ovvero un pizzico di “snobismo”: non certo presente in tutti i Potentini (come dicevo, ancora oggi è molto amato), bensì in un certo nostro modo di intendere la Musica, la Tradizione e la Cultura.
Quale strascico ha lasciato nella cultura popolare e nella memoria storica locale?
Un patrimonio inestimabile. Come dicevo, ha composto, riscoperto, ma anche e soprattutto inciso canzoni che non solo fanno parte dell’eredità canora tipicamente popolare del capoluogo lucano (che certo non vanta, di suo, una discografia ricchissima), ma è riuscito a fotografare in maniera clamorosamente vivida e autentica (cioè, senza retoriche di sorta) un passato che appartiene a tutti i potentini, e che ai suoi tempi era ancora in qualche modo “presente” in alcuni quartieri, contrade e famiglie di Potenza, senza contare i paesi del circondario, ove lui era anche molto seguito.
Era il cantore della povertà dei "suttani". E' per questo che, forse inconsciamente, c'è una tendenza a cancellare un passato infelice? Esattamente, il contrario di quanto succede a Matera, in cui la miseria dei Sassi ricorre spesso nell'arte locale, quasi a rivendicare il riscatto della città.
Un po’ è così, come dicevo, anche se mi viene da ricordare che anche a Matera ci si è a lungo “dimenticati”, per non dire altro, dei Sassi, che da alcuni anni godono invece di tutt’altra considerazione da parte dei materani. Questo per dire che il “provincialismo” è un atteggiamento mentale che ci condiziona un po’ tutti, ovvero il pensare che essere “moderni”, “evoluti” o “alla moda” comporti necessariamente stendere un velo su tutto ciò che ci ricorda e ci rappresenta un passato più difficile, o anche solo più semplice. Non dovrebbe essere così, ma tant’è. E quindi accade che le canzoni di Michele di Potenza vengano “cavalcate” nel corso dei festeggiamenti del Santo Patrono, come se ci fosse una sorta di “licenza” temporanea per abbandonarsi al folk o alle canzoni dialettali; e poi dimenticate nel resto dell’anno, quando tutti “torniamo” al rock, al pop o alle “immondizie musicali” (per dirla come Battiato) rappresentate da certi famosissimi “rapper” della tv e dei social che è meglio non nominare. Eppure Michele è stato un personaggio unico, anche nel panorama “folk” nazionale, e le sue canzoni ci rimandano a quell’autenticità dei fatti della vita, che è sempre bene tener presente, soprattutto oggi. Per dirne una: la Potenza dei “suttani” non c’è più, ma non sarebbe male recuperare quello spirito di solidarietà “di quartiere” di cui già Michele di Potenza avvertiva l’affievolirsi…
Qual è il fil rouge che lega Antonio Infantino e Michele di Potenza?
L’amore incondizionato per le proprie radici, soprattutto nell’ottica della ricchezza, che esse rappresentano e possono rappresentare dal punto di vista morale e culturale (discorso di cui sopra).
Qual è il contributo di questa iniziativa editoriale per avvicinare la generazione potentina 2.0 alla tradizione?
Un piccolo e modesto contributo, perché su Michele di Potenza -visto e considerato ciò che è stato fatto nelle altre città italiane a proposito dei cantanti tradizionali locali- si può e si deve fare molto di più. Ma, adesso, non spetta più a me o al mio editore.